Federazione Italiana Mediatori Agenti d'Affari della provincia di Varese
martedì 27 febbraio 2018 | in NEWS
Il contributo affronta i problemi a cui l’interprete è chiamato a dare risposta in tema di compravendite immobiliari rispetto alle quali non sembra potersi procedere ad un’automatica applicazione, in via alternativa, ora della disciplina della vendita a misura ora di quella a corpo. Né tantomeno, di fronte ad una clausola con cui le parti affermano che la vendita sia da intendersi a corpo, sembra percorribile la strada di applicare acriticamente la disciplina di cui all’art. 1538 c.c. Tale clausola, infatti, è da ritenersi di mero stile, e dunque non vincolante, tutte le volte che le parti non abbiano inteso stabilire alcun tipo di collegamento tra prezzo ed effettiva estensione del bene.
Compravendite immobiliari a misura e compravendite immobiliari a corpo: spesso è l'interprete a dover chiarire la disciplina applicabile anche tenendo conto della volontà delle parti. un interessante approfondimento di Antonio Musio è stato pubblicato su La nuova Giurisprudenza Civile Commentata, il mensile edito da CEDAM che segue la costante evoluzione del diritto privato sviluppando, attorno al tema della "nuova giurisprudenza" un costante dialogo tra Magistratura, Professione, Università.
È frequente nei contratti di compravendita immobiliare imbattersi in clausole come quelle per cui essa “è fatta con ogni inerente diritto” o “comprende i connessi diritti, accessori e pertinenze” oppure per cui il bene viene venduto “nello stato di fatto e di diritto in cui si trova”, “libero da pesi, canoni, vincoli ed oneri pregiudizievoli”, “franco e libero da pesi, così come in loco” oppure, ancora, ai sensi delle quali il compratore si accolla le “imposte di qualunque natura e specie” derivanti dal contratto o si preveda una clausola risolutiva espressa redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni di cui alla compravendita.
L’effettiva vincolatività di tali previsioni, tuttavia, è stata messa in discussione in più di un’occasione ed esclusa dalla giurisprudenza che ha ritenuto di giudicarle di mero stile e pertanto nulle, attese la loro ripetitività e standardizzazione che non consentivano di poterle considerare realmente volute dai contraenti. In effetti, la conclusione riflette un costante insegnamento giurisprudenziale che esclude l’efficacia di tutte quelle clausole che “si esauriscono in espressioni generiche” e per “l’indefinita ampiezza e l’indeterminata genericità che le caratterizza rivelano la funzione di mero completamento formale dell’atto”. Si tratterebbe, infatti, di espressioni volte a colmare eventuali omissioni ma che rimangono, tuttavia, prive di qualsiasi significato giuridico per via della loro genericità ed indeterminatezza. A mancare, in questi casi, sarebbe per l’esattezza un concreto contenuto volitivo dei contraenti per cui le pattuizioni inserite all’interno del contratto risulterebbero del tutto irrilevanti ai fini dell’intento negoziale perseguito.
Su quest’abbrivio, parte della dottrina è giunta a considerare inefficaci di diritto, senza, cioè, che vi sia nemmeno bisogno di dare la prova dell’assenza della volontà delle parti, anche le clausole inserite nei contratti da terzi in conformità a prassi costanti e ripetute nel tempo. Ma, in senso contrario, si è rilevato che la non vincolatività della clausola ritenuta di mero stile dovrebbe essere oggetto di specifica prova da parte di colui che intende sottrarsi agli effetti della stessa. A soluzione non dissimile si è pervenuti in relazione ad un’altra pattuizione frequente nelle transazioni immobiliari secondo cui “l’immobile è venduto a corpo e non a misura”, principalmente inserita al fine di dare maggiore stabilità al contratto, mettendo al riparo il venditore da eventuali rivendicazioni sul prezzo che potrebbero essere azionabili dal compratore se la vendita fosse qualificabile “a misura”. Si è detto, infatti, che anche tale previsione, se inserita in maniera ripetitiva e sganciata dal contesto nel quale viene collocata, senza alcun effettivo riscontro nella determinazione dei contraenti relativa al negozio in questione, si riduce ad una vera e propria clausola di stile, come tale, improduttiva di effetti. Di qui il ruolo crescente ascritto all’interprete è di ricostruire l’effettiva volontà delle parti in merito all’esistenza o meno di un collegamento più o meno intenso tra l’estensione del bene e il prezzo di vendita onde accertare se realmente nelle vendite dichiarate a corpo sia dato riscontrare dal complessivo assetto contrattuale una sia pur vaga relazione tra il prezzo di acquisto e la misura del bene venduto.
L’indicazione della misura è, a rigore, necessaria – com’è noto – nella sola vendita di cosa generica, non essendo invece essenziale nella vendita di cosa specifica. Quando, infatti, le parti compravendono un immobile, di norma, considerano l’oggetto del loro contratto una cosa specifica, per cui la descrizione quantitativa del bene in linea teorica non dovrebbe aver alcun rilievo. In effetti, nella vendita di cosa specifica la misura non costituisce elemento essenziale per la identificazione dell’oggetto, a meno che non si tratti di una vendita di una porzione di immobile a distaccarsi da una maggiore consistenza. In questi casi, nei quali la compravendita è da taluno denominata “a misurazione”, l’indicazione della misura serve a conferire determinatezza all’oggetto del contratto e, quindi, validità allo stesso.
Di là di tale ipotesi, tuttavia, la descrizione quantitativa dell’immobile, ancorché non necessaria, è comunque assai frequente e risponde, al fine di una migliore precisazione delle sue caratteristiche ovvero della esatta determinazione del prezzo. Solo in tale eventualità trova applicazione la disciplina sulle vendite a misura e a corpo di cui agli artt. 1537-1541 cod. civ. in quanto sussiste l’intenzione delle parti di concludere un contratto in cui il prezzo sia in modo più o meno intensamente correlato all’estensione del bene.
Nella vendita a misura, infatti, tale collegamento è particolarmente stringente, atteso che le parti dimostrano di voler mantenere una esatta proporzione tra l’indicazione del prezzo pattuito e la effettiva misura del bene; esso, al contrario, manca qualora il contratto non contempli alcun riferimento alle dimensioni dell’immobile, magari perché il bene in questione è già sufficientemente determinato oppure perché le parti non hanno precisato né il prezzo globale dell’operazione, né l’estensione complessiva del bene, ma si sono limitate ad indicare il prezzo per ogni unità di misura.
In tali ipotesi ben potrebbe ricorrere una vendita a corpo nella quale il legame tra costo e misura dell’oggetto del contratto risulta attenuato, atteso che il legislatore ritiene tollerabile l’errore sull’estensione del bene se contenuto entro il limite del ventesimo. L’art. 1538 cod. civ. è, infatti, fondato sul presupposto che i contraenti pattuiscono il prezzo, avendo presente l’immobile nella sua individualità e nella sua estensione. La prima assume rilievo prevalente quando l’errore della misura sia lieve, non essendo ammessa alcuna modificazione del prezzo, mentre il suo valore si attenua e si amplifica quello legato alle dimensioni quando la divergenza tra la misura reale e quella erroneamente indicata in contratto raggiunge la percentuale del 5%.
Decisa si rivela al riguardo la volontà delle parti che se omettono ogni riferimento alla misura dell’immobile, dimostrano di non aver voluto attribuire alcuna importanza a tale circostanza, lasciando la determinazione del prezzo del tutto svincolata dalla quantità trasferita. E così, qualora i contraenti, senza far alcun riferimento ai metri quadri, si limitino a precisare i confini o altri segni che valgano a distinguerli, deve ritenersi che essi abbiano inteso prescindere dalla reale estensione del bene.
In ogni caso, la sola precisazione della misura dell’immobile non è condizione sufficiente per l’invocabilità dell’art. 1538 cod. civ.. Se, infatti, i contraenti abbiano avuto riguardo solamente all’individualità ed all’unità della cosa, contemplando la misura a meri fini descrittivi, l’errore su quest’ultima indicazione non consentirà l’operatività dei rimedi previsti per la vendita a corpo.
Le norme codicistiche in tema di vendite immobiliari sono state, dunque, concepite al fine di giungere ad una corretta determinazione del prezzo pattuito dopo che le parti abbiano condotto un’indagine di natura quantitativa sull’immobile compravenduto. Esse presuppongono, cioè, che l’immobile sia stato consegnato in tutta la sua effettiva quantità, ma che tra questa e quella erroneamente ritenuta dai contraenti, o almeno da uno di essi, al momento della conclusione del contratto esista una differenza. In definitiva, il legislatore non ha inteso in tale ipotesi sanzionare l’inadempimento di una delle parti, ma si è limitato a regolare le conseguenze della oggettiva difformità tra le determinazioni identificative del bene oggetto di compravendita e la reale consistenza di quest’ultimo in ragione del prezzo pattuito e ciò indipendentemente da comportamenti colpevoli.E così le questioni relative alle dimensioni degli immobili compravenduti non giustificano il ricorso ai rimedi della risoluzione del contratto e del risarcimento del danno, dando solo diritto ad una rettifica del prezzo o, nei casi più gravi, ad un recesso dal contratto. Tale soluzione pare fondarsi sull’assunto che, al fine dell’esperibilità delle suddette azioni speciali, gli artt. 1537 cod. civ. ss. già prendono in considerazione la colpa del venditore, consistente nell’errore di calcolo nel quale egli è incorso all’atto della conclusione del contratto.
Naturalmente discorso diverso deve svolgersi quando il venditore abbia garantito la misura esatta del bene, non trovando applicazione in questo caso le norme in tema di vendite immobiliari. Ad analoga conclusione deve pervenirsi qualora il compratore si sia determinato ad acquistare l’immobile in considerazione della estensione dichiarata dal venditore in contratto, in quanto indispensabile ai fini dell’utilizzo che l’acquirente intende fare del bene. In tale ipotesi, qualora l’estensione dichiarata risulti alla prova dei fatti minore di quella effettiva, viene meno la presunzione relativa che l’ordinamento pone a garanzia della stabilità del contratto di vendita immobiliare e per la quale le difformità riscontrate non producono la normale conseguenza dell’annullabilità prevista per l’errore sulla quantità.
La disciplina codicistica della vendita di cose immobili trova applicazione, però, in fattispecie assai differenti tra loro, alcune delle quali effettivamente riconducibili ad un errore di calcolo ed altre non affatto riferibili a tale categoria ma che, ciononostante, vengono attratte alla medesima disciplina. L’insoddisfazione lasciata dalle varie teorie che hanno tentato di ricostruire il fondamento della disciplina della materia, compresa quella senz’altro maggioritaria che la riconduce all’errore di calcolo, induce, tuttavia, a ricercare altrove il reale fondamento della normativa prevista dal codice civile per le vendite a misura e a corpo. A tal fine occorre partire innanzitutto dalla considerazione che gli articoli da 1537 a 1541 cod. civ. mirano a regolamentare la relazione intercorrente tra la misura dell’immobile compravenduto e il prezzo di tale bene per evitare che, una volta stabilita la base economica dello scambio, questa possa risultare alterata a danno di uno dei contraenti.
In quest’ottica la ratio della disciplina in esame sembra riposare piuttosto sul principio di proporzionalità sol che si rifletta, da un canto, sul tipo di azioni predisposte dal legislatore a tutela degli interessi sottesi al contratto e, dall’altro, sui presupposti necessari per la loro concreta esperibilità. I rimedi della rettifica del prezzo e del recesso dal contratto, in effetti, sembrano funzionalizzati al recupero della proporzione tra le prestazioni, venuta, poi, a modificarsi a causa di una differenza quantitativa non imputabile né al compratore né al venditore. La funzione reale degli artt. 1537 ss. cod. civ. parrebbe, pertanto, essere proprio quella di garantire ai contraenti di mantenere quell’equilibrio, o meglio, quella proporzione tra le prestazioni, sulla base della quale essi avevano ritenuto congruo il valore dello scambio.
Le norme di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ. sono invocabili – come detto – solo quando le parti abbiano fatto riferimento alle dimensioni del bene al fine di stabilire una correlazione tra estensione dello stesso e prezzo e non anche per meglio individuare l’oggetto del contratto. La questione relativa alle reali intenzioni delle parti non può però prescindere da una valutazione casistica, rimessa all’interprete, chiamato, di volta in volta, a chiarire il significato e la portata della previsione contrattuale con cui si sia fatto specifico riferimento alla misura dell’immobile. Tuttavia, l’assunto secondo cui i rimedi previsti dagli artt. 1537 ss. cod. civ. possano essere invocati solo in quanto, all’esito di un’indagine sulla volontà dei contraenti, risulti che la considerazione dell’estensione dell’immobile sia stata essenziale nella determinazione del prezzo, è stato variamente criticato in dottrina.
Secondo un primo autorevole orientamento, infatti, una simile ricostruzione apparirebbe difficilmente giustificabile, atteso che la menzione della misura del bene di norma determinerebbe l’applicazione delle richiamate disposizioni codicistiche per via della valutazione tipica fatta dal legislatore secondo cui tutte le volte che vi sia indicazione della estensione del bene, oltre che del prezzo, le conseguenze previste da tali previsioni non potrebbero essere eluse. Di presunzione assoluta discorre anche altra parte della dottrina per la quale, in presenza dell’indicazione della misura del bene, oltre che della determinazione del prezzo, dovrebbe ritenersi che le parti abbiano tenuto conto dell’aspetto quantitativo per la determinazione del corrispettivo della vendita. Allorquando i contraenti facciano riferimento alla estensione dell’immobile e ne fissino il prezzo in modo forfettario dovrebbe, in altri termini, necessariamente trovare applicazione l’art. 1538 cod. civ. la cui operatività potrebbe essere superata solo per effetto di una espressa deroga. Non sarebbe, così, sufficiente desumere l’irrilevanza dell’indicazione della misura dal fatto che l’estensione dell’immobile sia riportata nei dati catastali o con qualche incertezza; come non basterebbero né generiche dichiarazioni di non garanzia circa l’estensione dichiarata dell’immobile, né l’avvertenza che la misura sia stata tenuta in considerazione in modo solo approssimativo, come nell’ipotesi in cui essa sia stata indicata “all’incirca”. Una deroga convenzionale potrebbe, infatti, risultare solo da una espressa dichiarazione di volontà, manifestata in forma scritta o in modo implicito, come nel caso in cui le parti precisino che il contratto resterà vincolante a prescindere dalla effettiva misura del bene.
A rigore, però, non sembra corretto parlare di una deroga (espressa o tacita che sia) alle disposizioni di cui agli artt. 1537 ss. cod. civ. allorquando, dall’esame del testo contrattuale, emerga che le parti abbiano considerato del tutto irrilevante, ai fini della determinazione del prezzo, l’effettiva estensione dell’immobile. Invero, sebbene nessun dubbio si pone circa il fatto che le norme relative alla compravendita di beni immobili hanno natura dispositiva e siano, pertanto, derogabili dalle parti (le quali sono quindi libere di prevedere sia che il diritto di rettifica del prezzo o quello di recesso siano esercitabili solo nel caso di divergenza che va oltre un certo limite, sia di escludere del tutto il diritto di rettificare il prezzo o quello di recedere dal contratto qualora si accerti una difformità tra estensione dichiarata e quella reale), non sembra comunque condivisibile la conclusione secondo cui l’interprete deve risolvere la questione sulla base di una presunta deroga alle norme codicistiche in tema di compravendita immobiliare.
Più verosimilmente le norme in esame non troveranno applicazione, qualora risulti accertato che i contraenti non abbiano inteso stabilire una relazione più o meno intensa tra prezzo ed estensione dell’immobile, ma abbiano, di contro, fatto riferimento alla misura dello stesso esclusivamente ai fini di un’ulteriore specificazione del bene. In tal caso, infatti, l’inapplicabilità degli artt. 1537 ss. cod. civ. non dipenderebbe da una deroga a norme dispositive, ma semplicemente dall’assoluta mancanza del presupposto sul quale le stesse si fondano.
L’interprete non può, dunque, limitarsi a prendere atto dell’esistenza di un contratto di compravendita immobiliare e applicare automaticamente ad esso, in via alternativa, la disciplina della vendita a misura o quella della vendita a corpo; né tantomeno, di fronte ad una clausola con cui le parti affermano che la vendita sia da intendersi a corpo e non a misura, può propendere acriticamente per l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1538 cod. civ.
L’indagine che deve compiersi è, infatti, ben più complessa rispetto alla possibilità di optare tra la secca alternativa tra vendita a corpo e a misura. Analogamente l’inserimento di pattuizioni del tutto scollegate o addirittura contrastanti con l’effettiva intenzione delle parti risultante da una complessiva lettura del testo contrattuale non può indurlo a considerare vincolanti clausole che sono, invero, di mero stile.
Non basta, infatti, che una misura sia stata puramente e semplicemente indicata perché si possa concludere per l’operatività degli articoli da 1537 a 1541 cod. civ. Sarà, invece, necessario che tale indicazione sia stata espressa in termini precisi ed univoci, sì da denotare che l’indicata misura sia stata tenuta presente dai contraenti per esprimere la quantità, sia pure approssimativa, del corpo dell’immobile e, al tempo stesso, per la determinazione del prezzo.
Di converso, qualora ad un attento esame della volontà negoziale risulti che una misura è stata indicata non per esprimere, sia pure in via di approssimazione, l’estensione dell’immobile, bensì per altri motivi, come ad esempio per una migliore individuazione dello stesso, non potrà farsi luogo ai tipici rimedi codicistici previsti in tema di vendite immobiliari. L’eventuale indicazione nel contratto della misura del bene, insomma, rende applicabile gli artt. 1537 ss. cod. civ. solo qualora ricorrano i presupposti oggettivi stabiliti dalla legge e non risulti, dall’interpretazione del contratto, la volontà delle parti di considerare del tutto irrilevante l’estensione dell’immobile.
Corollario della conclusione è l’impossibilità di considerare la vendita immobiliare necessariamente a corpo o a misura, in quanto la stessa può essere innanzitutto “a misurazione”, come quando l’oggetto del contratto consista in una certa quantità da scorporarsi da un bene di più ampia estensione, oppure addirittura del tutto scollegata da una relazione tra le dimensioni del bene e il prezzo. In queste due ultime ipotesi, dunque, il contratto non potrà essere sottoposto alle conseguenze giuridiche previste dagli artt. 1537 ss. cod. civ.
Quanto, poi, alla prassi di inserire tralatiziamente nei formulari relativi alle transazioni immobiliari la clausola “a corpo”, sembra opportuno operare un distinguo tra le semplici scritture private, da un lato, e gli atti stipulati dinanzi ad un notaio, dall’altro. In effetti, in questa seconda ipotesi appare più difficile riuscire a dimostrare che la clausola non corrisponda alla reale intenzione dei contraenti e ciò soprattutto se si tiene conto dell’obbligo di legge che grava sul notaio di controllare che la volontà delle parti sia effettiva. Inoltre, tenuto conto del principio di conservazione del contratto sancito dall’art. 1367 cod. civ., secondo cui nel dubbio anche la singola clausola deve essere interpretata nel senso in cui essa può avere un qualche effetto, anziché in quello per il quale non ne avrebbe alcuno, dovrà prevalere una sorta di presunzione relativa al fatto che le parti con quella clausola una qualche finalità intendevano perseguire.
A rigore, però, non può del tutto escludersi che anche una clausola contenuta in un atto pubblico possa essere giudicata di stile e, pertanto, priva di effetto. Più che una assoluta impossibilità giuridica al riguardo, in effetti, la questione sembra porsi piuttosto su di un profilo probatorio. È, cioè, piuttosto un problema di onere della prova che il contraente interessato all’inefficacia della clausola è tenuto a dare, dimostrando che la pattuizione, sebbene inserita nel testo negoziale, in realtà non era stata voluta da tutte le parti del contratto.
Non sono mancati, infatti, i casi in cui le parti, pur precisando che il prezzo dell’immobile fosse calcolato un tanto in ragione di ogni unità di misura, abbiano sancito, poi, con un’apposita menzione, che la vendita dovesse intendersi conclusa a corpo. Sebbene autorevole dottrina abbia ritenuto che in situazioni del genere dovrebbe comunque prevalere la clausola “a corpo”, non può, tuttavia, non osservarsi come qui la volontà delle parti appaia del tutto contraddittoria, al punto da far ritenere più coerente ipotizzare la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto, attesa la mancanza di un elemento essenziale della compravendita quale è il prezzo.
L’uso della clausola “a corpo”, in definitiva, può in qualche caso essere il frutto di un meccanico richiamo e, dunque, risultare improprio allorquando dall’analisi complessiva del testo contrattuale emerga un’intenzione dei contraenti diversa e inconciliabile con la disciplina di cui all’art. 1538 cod. civ.; situazione che si verifica inesorabilmente se alienante e acquirente nessun tipo collegamento abbiano inteso stabilire tra prezzo ed effettiva estensione del bene.